Una stanchezza di fondo ci ha contagiato un po’ tutti nell’era del Covid: in attesa di tempi migliori possiamo escogitare dei rimedi
Fatica. Mi pare sia questa la parola che condensa il vissuto delle persone incontrate di recente. Donne e uomini risparmiati dall’assalto diretto del virus, che scontano un lento logorio.
Nel mio spaccato personale (se escludo le situazioni più drammatiche), da settimane cambiano i volti, ma la cifra resta la stessa. Lavoratrici alle prese con conti che non tornano e figli che si contendono il PC per le lezioni online. Cinquantenni disposti a reinventarsi, ma appesi a una burocrazia che lo smart working non è riuscito a snellire. E anziani che hanno perso, insieme alla voglia della passeggiata mattutina, anche la finestra su un domani da aspettare. Dietro le quinte della scena saturata dal Covid, i movimenti della vita arrancano e difficoltà ordinarie diventano straordinarie.
La rivelazione più spiazzante però l’ho avuta quando ho guardato dentro di me.
Dapprima ho solo riconosciuto la doppia faccia della fatica, che è sensazione e insieme tonalità affettiva. Mi sono permessa di accogliere la stanchezza fisica e ho accettato lo smarrimento, il “perdermi” nascosto nell’etimo di fatigare. Poi ho temuto il peggio: che la fatica scolorasse in accidia, quell’inerzia dell’anima tanto vicina all’anestesia. L’insidia più grande per chi si occupa di aiuto. Allora ho cercato antidoti. Ne ho trovati due, rispolverando i ricordi e la libreria.
Parto dal ricordo. Mia nonna, in ospedale per le fibrillazioni del suo cuore impazzito, immagina a 97 anni la festa dei suoi 100. Vuole arrivare al traguardo: una fine, forse, ma anche un fine per lei. Dunque un inizio, che le offre un orizzonte di senso e un pezzo di futuro da corteggiare. Ora, il libro. In Memorie del sottosuolo, Dostoevskij nota che “all’uomo è sempre piaciuto agire come voleva”. Poi corregge il tiro. La volontà infatti non è arbitrio. La volontà si educa. Esige che si passi per le vie del pensare (occorre distinguere, considerare il contesto, agganciarsi alla responsabilità) e poi implica gesti, decisioni, passione per sostenerle e duttilità per cambiare passo quando serve. Difficile, certo: c’è una fatica anche nel volere, per dirla con Nietzsche. Eppure possibile. Si tratta di tradurre la volontà nel coraggio di cominciare qualcosa che amiamo, con lo sguardo a un’idea di bene.
Ma come dare sostanza alla figura del bene? Qui per me entra in gioco il vecchio concetto di Misura. Gli antichi credevano che Bene fosse assecondare lo sviluppo di ogni essente, in equilibrio con gli altri e secondo misura. Il centro per loro era la proporzione, quindi la relazione. Uno scambio in cui ciascuno porta la sua parte e onora il suo limite.
Ecco: volontà di cominciare e misura nel cooperare possono forse riscattare la fatica. Di più, la fecondano con il piacere, che è l’antidoto per eccellenza a ogni stanchezza.
Ho davanti a me tre inizi. Qui, conscia del mio limite, provo a dare un contributo, accolgo la gioia della “nascita” come carburante e fantastico sulle candeline di futuri anniversari. Altrove, quando non riuscirò con le opere ad alleggerire i pesi di chi incontro, voglio accontentarmi di essere accanto. Con le giuste misure di protezione, ma anche con cuore, mente e corpo. Perché la relazione è tridimensionale. Possiamo apparecchiare surrogati. Se però ci dimentichiamo qual è la sua vera forma e smettiamo di sentirne la mancanza, saremo davvero soli (e perduti) nelle nostre fatiche.