Il Covid 19 dovrebbe indurci a includere ed affrontare nel nostro progetto di vita l’ipotesi di una caduta esistenziale
Martedì. Guardo la mia agenda con un moto di ansia e preoccupazione. Il mio lavoro è lì, su ogni riga dell’intera giornata. Giro la pagina al mercoledì per trovare consolazione: niente. Giornata pienissima, con una pausa alle 15.30 e poi dalle 17 una nuova corsa fino alle 21.
Inizio, come di consueto ormai, e ancora di più negli ultimi mesi, a contare le lettere dell’alfabeto, in cerca del piano b, c, d… La mia testa macina strategie, per adeguarsi alla novità del giorno: “mamma, mi dice mia figlia alle 7.02 del mattino, ho il raffreddore!”.
Ci provo: “il che? Ma no, soffia il naso che passa e misura la febbre che andiamo a scuola”. Temperatura: 37.5.
Mi rassegno: dodicesimo giorno di scuola. Game over.
Dover attivare le procedure anticovid – telefonata al pediatra, attivazione del servizio tamponi, attesa della comunicazione per fissare l’appuntamento, clausura collettiva familiare, ma questo dipende dalla decisione che cambia da scuola a scuola – fa parte di una giornata già piena di suo: occorrerà cambiare progetti, spostare gli incontri, alcuni stabiliti da settimane, ed anche allontanarci, non toccarci e viaggiare anche in casa con la mascherina. In un primo momento di spaesamento, mia figlia mi guarda dall’alto del suo letto a castello e non sappiamo quasi cosa dirci. Poi ascolto una domanda che si fa spazio: con chi posso prendermela? Comunque la si guardi: con nessuno. Come abbiamo imparato,
siamo tutti coinvolti, tutti siamo immersi nella realtà di una pandemia che può far saltare gli schemi, che ha già fatto strage di comportamenti, abitudini.
E che ha già fatto strage di persone. E principalmente per questo siamo chiamati alla cautela, all’estrema prudenza.
Lo abbiamo compreso tutti: abbiamo a che fare con una nuova realtà, che, credo, debba escludere da una parte la nostra illusoria idea di controllo e dall’altra includere una straordinaria capacità di progettare. E dico straordinaria, nel senso di nuova, inconsueta e rivoluzionaria, per qualche verso. La capacità di progettare il cui elemento fondamentale e imprescindibile sia la fine, l’ostacolo, il rischio di perdere (a volte e per alcuni) molto, troppo, persino tutto.
Illudersi di avere il controllo sulle cose è una vecchia storia: ci pensò la psicologa Ellen Langer a dimostrare, con una serie di test, che gli uomini credono fermamente di avere un’abilità (quasi magica) di modificare la realtà, persino la più casuale. Al punto che, se si vuole ottenere un numero alto, nel lancio di dadi, basta imprimere maggiore potenza nel lancio stesso (e il contrario per ottenere numeri bassi). Sono passati quasi 50 anni da quei test, ma questa fiducia nel nostro potere illusorio di controllo della realtà non è cambiata molto.
Ma se da questo punto di vista, razionalmente potremmo anche convincerci, credo che la questione più complessa, nella società della competizione e della performance, sia includere nel nostro progetto di vita, come dicevo, la fine, la pausa, le costrizioni (per quanto necessarie, o transitorie). Ed è tanto più complesso, perché la difficoltà si moltiplica per il numero dei componenti familiari e il tutto, chiusa la parentesi, è elevato al quadrato del numero dei gradi fuori dalla finestra, sommato al numero di contatti avuti nella giornata.
Integrare l’arresto nella nostra vita può sembrare ovvio, perché già prima del covid-19 lo facevamo, ma oggi ci troviamo di fronte ad una situazione tale per cui, dal mio punto di vista, occorre vigilare. Vigilare su quel pericolo che Binswanger definiva (mutuandolo da Heidegger) deiezione, ossia, caduta esistenziale: ciò accade quando le cose, come ben spiega Galimberti, “da invitanti diventano incombenti, da allettanti angoscianti”. Quando cioè, al posto della nostra capacità di progettare, di immaginare il futuro, di tentare di realizzare i nostri desideri “subentra la non-libertà dell’essere dominati da un determinato progetto di mondo non scelto, ma subìto” (Binswanger).
Ecco allora che le soluzioni fino ad ora tentate, per quanto impacciate, a volte, complicate (“un tampone ad ogni starnuto”, sento dire dalle mamme davanti alla scuola, e io stessa lo penso spesso), a volte manchevoli (le riunioni smart, senza il corpo e quelle in presenza senza volto, tutte sembrano urlare che ci siamo, continuiamo ad esserci e vogliamo esserci e che, in qualche modo, desideriamo farcela.
Resistere alla deiezione sembra essere il compito di questi mesi ed è forse per questo che nei giorni di assenza da scuola mia figlia, sorprendentemente, mi dice “mamma, sto facendo i compiti per domani”, anche se “domani” a scuola non ci andrà e potrebbe non andarci per un tempo molto più lungo rispetto ad una semplice influenza.
In tutto questo, infine, un po’ di fortuna: nella giornata di mercoledì, l’appuntamento per il tampone è stato fissato per le 16 (nella mia unica finestra libera) e l’esito negativo è arrivato 20 ore dopo, risollevando gli umori e riportando l’entusiasmo per i compiti e la scuola a livelli più bassi e piacevolmente normali.