O forse dobbiamo cercarlo meglio
Ad uccidere il sacro, a lasciarlo a terra esangue, è la superficialità, il pensiero prepensato, cotto ed impiattato, che ci suggerisce che in fondo l’importante è essere più degli altri, anche se non sappiamo cosa sia davvero essere.
“Sacro è il sole che sorge negli occhi stanchi di un asino…” (F. Arminio)
La poesia è il luogo della magia, la radura nella quale suono e significato si fondono e l’uno non può fare a meno dell’altro. Una persona cara mi ha donato questa e altre poesie che mi hanno fatto riflettere a lungo; curiosa cosa la poesia, alcune ti avvitano un cavatappi in testa che ti rimane giorni e giorni, a volte anni.
La parola sulla quale vorrei proporre una riflessione è “sacro”: che fine ha fatto il sacro? Che cosa comporta la scomparsa del sacro? Spesso lo associamo alla religione, alla fede, alla chiesa; la poesia di Arminio a mio modo di vedere ci suggerisce che sacro non è una categoria dell’anima ma, al contrario, una modalità del guardare, una particolare angolazione con la quale pensiamo e ci pensiamo.
Il sacro, dunque, non è suscettibile alla confutazione della ragione, non fa la fine della religione che vista con gli occhi del Rasoio di Occam appare come una tra le tante favole che ci si racconta per lenire la paura; il sacro rimane tale sempre, impermeabile alla scienza, alla politica, alle ideologie.
Il sacro è lì a indicarci che ciò che abbiamo davanti agli occhi è unico, irripetibile, che tutto il senso delle cose può essere racchiuso in un petalo di fiore, che una vita passata a ricercare il fiore perfetto non è una vita sprecata, come ci dice il Bushido.
A uccidere il sacro, a lasciarlo a terra esangue, è la superficialità, il pensiero prepensato, cotto e impiattato, che ci suggerisce che in fondo l’importante è essere più degli altri, anche se non sappiamo cosa sia davvero essere.
Il ministro che candidamente confida alla cronista di non aver letto i libri in un concorso letterario che lo vede tra i giudici, oltre a dare una buona dimostrazione di banalità, uccide il sacro nel senso che disconnette quel legame tra terra e cielo, quel dito che indica la luna.
Ma non dobbiamo perderci d’animo, perché se il sacro a volte muore, da sempre risorge come l’araba fenice proprio dalle proprie ceneri e allora proprio gli occhi stanchi dell’asino lo fanno risorgere.
A conti fatti mi sembra che sia proprio l’improbabile, lo scontato, lo sfondo che diviene figura, ciò che improvvisamente fa da sfondo al sacro. La condizione di possibilità che riconsegna valore e senso alla vita, che la connette con il cielo, arriva all’improvviso, una folata di vento, il sorriso di un bambino, occhi spalancati sul mondo.
Allora quando penso a questo mi sento la persona più fortunata del mondo perché ogni volta che davanti a me le persone si aprono, mi consegnano il proprio dolore, lo sguardo, il respiro, il silenzio, aprono uno spazio enorme e delicatissimo che impone delicatezza, tempi lenti e tanta cura.
Allora proprio in quei momenti, quando la sofferenza ha il suono del silenzio, la fatica del respiro, l’odore acre del sudore, in quel momento torna prepotentemente il sacro a urlare con voce tonante che dentro di noi abbiamo luce e visione chiara: come direbbe il filosofo Emanuele Severino, “siamo Dei che si credono mortali”; allora si torna a casa stanchi ma sereni.
già pubblicato su @fuoritestata