Non c’è solo la pazzia a spiegare quel che ci sembra incomprensibile, inaccettabile. Dare spazio alla comprensione ci permetterebbe di andare oltre le etichette, utili solo a placare le nostre paure
“Hai saputo di P.? Si è licenziato!”
“Davvero? Beh, certo, ultimamente stava male eh”.
“Sì, era molto depresso”.
Quante volte mi è capitato di intercettare discorsi di questo tipo: ad ogni accadere che si scosti da ciò che noi assumiamo come normalità, abbiamo subito pronta una strategia di oggettivazione dell’accaduto con un corollario di pronto intervento diagnostico-psicologico, che funziona da ansiolitico.
È una cosa su cui rifletto da molto tempo e che penso debba interrogarci tutti. A maggior ragione questo vale per chi fa il mio mestiere che – dal mio punto di vista – si esprime come amore per le domande. Amore per le domande, non amore per le risposte: in questo sta la differenza fondamentale tra chi cerca di comprendere e chi invece si pone l’obiettivo di capire. Capire è proprio del sapere scientifico, capire è separare biblicamente il grano dal loglio, ovvero escludere tutto ciò che non è razionale, che ostacola il raggiungimento della verità. Il capire dunque, almeno così inteso, implica la scoperta, anche se asintoticamente intesa della verità, dunque la sua esistenza.
Comprendere è cosa diversa, comprendere è gestione della complessità, è cercare di trovare una inclinazione del sentire che non lasci fuori nulla, che cerchi una dilatazione dello sguardo tale da non far restare indietro nulla e nessuno.
Comprendere dunque è necessariamente una dimensione deformata e deformante della realtà, è approdare in una radura in cui le domande superano di gran lunga le risposte e dunque rimangono a tenerci svegli, ci impongono uno sguardo non ideologico, amorale, non giudicante… insomma tutto ciò che non sembra avere uno spazio nella nostra sfortunata contemporaneità.
Questi nostri ultimi anni sono sempre più stati vissuti all’insegna della compressione del pensiero e dunque con una ricerca maniacale, disperata verso certezze ideologiche che a mio modo di vedere rappresentano in modo plastico la nostra paura ed esigenza di approdare ad un capire che lenisca l’ansia profonda che ci sta attanagliando. Da questo punto di vista è molto interessante vedere come di fatto il palinsesto della macchina della paura in sé non sia assolutamente cambiata e si ripeta e riproponga con modalità sempre analoghe.
Da ormai molte interminabili settimane siamo entrati nella versione “guerra” della macchina, come in qualsiasi partita di calcio escono Galli, Burioni, Crisanti ed entrano Margelletti & co. Un avvicendamento tipico della macchina della paura che darwinianamente affida il comando agli attori più aggressivi, alle notizie più eclatanti. Intendiamoci: chi scrive non ha intenzione di minimizzare ciò che accade, di relativizzare responsabilità e colpe, carnefici e vittime. C’è solo l’amara constatazione che sotto questa incessante pressione non ci sia più lo spazio per il pensiero, che sia tutto assolutamente compresso. Il trauma ovviamente ci sbatte la faccia contro il muro, e questo è ovviamente inevitabile; la macchina della paura però, con la sua riproposizione continua di poche notizie in loop, con la drammaticità di storie ed immagini, perpetua in noi la spinta verso la compressione.
In ogni caso la cosa che io personalmente vivo come irricevibile è quella di cercare ancora una volta spiegazioni nella psicopatologia, nella diagnostica a buon mercato: eccoli lì allora alcuni di noi (forse non molti ma sempre troppi) a spiegare che il tiranno di turno è affetto da qualsivoglia oscuro male mentale, con la stessa sicumera con cui qualche mese prima ci spiegava il disturbo psichiatrico di chi nega la pandemia, il “raptus” che ha portato quel marito amorevole ad annientare la propria famiglia.
In fondo, ciò che sta accadendo ora serve a ricordarci in modo molto fermo e a lettere di fuoco che siamo bestie ammaestrate e che l’evoluzione culturale e quella della specie non sono affatto parallele.
Ogni tanto il software va in crash e allora si torna al funzionamento base e questo, ciò che Thomas Hobbes chiamava “homo, homini, lupus”, non è una malattia ma è la nostra profonda natura.
Parafrasando l’intramontabile Giorgio Gaber dunque dobbiamo cercare, più che combattere Putin in sé, di fare i conti con il Putin che è in me, in ognuno di noi. Ma questo, al momento, è decisamente impensabile.