DA QUESTO VIRUS IL CORPO HA SUBITO FERITE INVISIBILI

Alcesti Alliata

La mancanza di approcci fisici ha alterato i nostri sistemi psichici: occorrerà grande delicatezza per tornare a rapporti normali con gli altri 

Che fine ha fatto il corpo, nel tempo sospeso della pandemia?

Non mi riferisco al corpo intaccato dal virus, al dramma dei tanti corpi malati che si sono ritrovati tragicamente soli, anche nell’ora estrema, ma al corpo di tutti coloro che sono rimasti indenni.  .   

Il corpo che in questi mesi non ha più potuto liberamente esprimersi, cantare, recitare, correre, danzare, fare sport. Certo, anche in quarantena le persone hanno recitato, cantato, fatto sport o lezione: le abbiamo viste passare ovunque nel web. Ma chiedetelo a un attore di teatro cosa significa recitare senza il compagno di scena e a un musicista suonare senza il pubblico; o domandiamo a un insegnante cosa vuol dire fare lezione senza “sentire” la classe. E come è andata agli studenti che davanti ad uno schermo hanno dovuto dimostrare di essere attenti e presenti? 

Se la osservo, a me pare quasi surreale la dimensione che la maggior parte dei nostri corpi ha assunto nelle innumerevoli videochiamate di questi mesi. Aperitivi e cene condivise online, lezioni, interviste, conferenze, saluti, riunioni: il corpo è dimezzato, spesso tagliato in due, nascosto per metà o tre quarti, costretto e rinchiuso in pochi pollici di spazio (quelli dello schermo di un pc, di un telefono, di un iPad). Corpi che hanno dato vita ad immagini standard, copia e incolla di situazioni certamente diverse nei contenuti, ma tanto simili in apparenza.

E ancora: un corpo, il nostro, al quale viene chiesto di mantenere la distanza dagli altri, per salvarsi. Che, quindi, deve toccare, sfiorare il meno possibile. Mani che devono essere pulite, sanificate, igienizzate ogni volta che vengono a contatto. Corpi che si incontrano, faticano a riconoscersi e che precauzionalmente si distanziano imbarazzati.

Non posso dire che in questo tempo non abbiamo comunicato, che non ci siamo espressi, o che ci siamo espressi con minore intensità e nemmeno che siamo immersi in una non-relazione, perché il corpo è venuto meno. Strategie alternative ne abbiamo trovate, mostrando creatività, capacità di adattamento e grande resilienza. 

E tuttavia, a me pare che il corpo abbia subìto in questi mesi una ferita indicibile. 

Personalmente, questa dimensione mi è mancata moltissimo, nel mio lavoro di formazione e all’interno della relazione di aiuto, individuale o con i gruppi, ma anche nelle riunioni e nei momenti di incontro. I gesti, la prossemica, l’inumidirsi degli occhi, gli odori, il potersi toccare, il potersi guardare reciproco, i silenzi, gli imbarazzi, la complicità ed il respiro. E ancora mi è mancato il corpo, il mio, antenna sensibile, grazie alla quale riconosco, per dirla con il filosofo Merleau-Ponty che “il mondo non è ciò che io penso, ma ciò che io vivo”. E mi è mancato perché porsi di fronte all’altro senza corpo, o con una sua forte riduzione, significa guardare l’altro con la mente, con uno sguardo deficitario, manchevole non solo della metà del corpo che non si vede, ma di quella parte del corpo che parla, che dice, che si esprime. 

Mi spiego così la mia fatica di questi mesi, se è vero, per citare ancora il filosofo, che ogni apertura relazionale al mondo e agli altri, ogni modalità, anche il dialogo, anche il colloquio, “passa attraverso la carne”.

Ma non è tutto. Il proprio corpo ha assunto nella relazione a due, o a più di due, una funzione quasi autistica di ascolto e sguardo su di sé. Il video che media le riunioni, gli incontri di ogni tipo, le sedute psicologiche o altro ha un intruso, un terzo, che di solito manca, o quanto meno non è così invadente: noi stessi. Quando parliamo con un altro possiamo vedere noi come fossimo allo specchio. Ci vediamo come ci vede l’altro, ci guardiamo, misuriamo, valutiamo, giudichiamo. Come influenza questo la relazione? Quanto ci condiziona?

Ancora due parole, infine, sulla memoria. Quando vivo con il corpo cambia la percezione, cambia la presenza, cambia la qualità della relazione. Non in meglio o in peggio, ma sicuramente, è diversa. E cambia anche il ricordo. Gli studi lo dicono, esso è più vivido se l’esperienza passa dal corpo, se posso sentire sulla mia pelle il senso del racconto dell’altro, ma non solo: quando viviamo insieme il momento della condivisione, ciò che passa tra me e l’altro resta dentro ciascuno di noi con maggiore intensità. Così mi spiego anche perché, in questo tempo disincarnato della pandemia, ho sentito l’esigenza di iniziare a scrivere per ricordare. Non la lista della spesa, ma i fatti, le cose accadute. Ho scritto per non perdere le narrazioni all’interno della relazione di aiuto, gli appunti delle riunioni, le storie raccontate dagli allievi o gli scambi avuti con i colleghi. Non avevo mai usato prima la scrittura per ricordare e credo mi sia di aiuto per tenere vive queste particolari relazioni senza corpo.

Dovremo convivere a lungo con un corpo a cui è chiesto di restare al riparo. Forse, serve una via per recuperare ciò che la sua assenza provoca.

Umberto Galimberti ci ricorda che sono le carezze della madre che aiutano il bambino appena nato a differenziarsi, a creare una propria identità corporea (perché inizialmente il bambino non sa di avere un corpo, per lui tutto è il proprio corpo, anche l’altro che di lui si occupa). La cura, allora, potrà essere il modo per tornare a relazionarci con l’altro. E la delicatezza nell’approccio, perché tutti i nostri sistemi psichici sono alterati in questi momenti e lo saranno ancora per qualche tempo nelle varie fasi che ci aspettano e nel post pandemia.  

già pubblicato su @fuoritestata.it

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